MARINETTI E IL MENU DI
UN PRANZO (POCO) FUTURISTA
IN MEMORIA DI BOCCIONI
Domenica 2 aprile 1933. Filippo Tommaso Marinetti, leader
del movimento futurista, reduce dal successo della pièce teatrale I prigionieri e l’amore (1) a Leopoli,
in Ucraina, e poi in Polonia, a Vienna, Roma Milano e Bolzano (2), raggiunse
Reggio Calabria per celebrare le solenni Onoranze
Nazionali a Umberto Boccioni tenendo una conferenza al Teatro Politeama Siracusa. L’apertura delle celebrazioni
di Boccioni a Reggio Calabria, città natia del padre della scultura italiana
moderna, fu preceduta, due anni prima, dall’invio da parte dei futuristi
siciliani Guglielmo Jannelli e Luciano Nicastro di una lettera aperta
indirizzata al commendator Muritano, podestà del capoluogo reggino, e a Gildo
Ursini, presidente dei Sindacati Intellettuali di Reggio Calabria, per «intitolare una bella
strada di Reggio al nome di Boccioni»,
e dalla costituzione del reggino Gruppo
Futurista Umberto Boccioni (3), fondato da due artisti studenti di
ingegneria Principio Federico Altomonte e Saverio Liconti, a cui aderirono il
poeta Nino Pezzarossa, gli universitari Alberto Strati e Antonino detto Nino
Tripodi (poi ardente fascista e nel dopoguerra tra i fondatori del Movimento
Sociale Italiano), oltre al poeta Mario Del Bello, il musicista Lino Liviabella, l’attore Gastone
Venzi e Aliquo Lenzi, autore di uno studio proprio su Boccioni (4).
La conferenza di Marinetti, prevista per il 2 marzo, come preannunciato
sulla rivista “Futurismo”, fu posticipata a domenica 2 aprile, e assieme al
leader del movimento parteciparono il pittore messinese Giulio D’Anna, la
poetessa catanese Adele Gloria e i calabresi Enzo Benedetto e Geppo Tedeschi.
Alla conferenza fece seguito un Banchetto
futurista tenutosi presso l’Albergo Centrale Miramare (hotel situato nello
storico palazzo Miramare, tra via Fata Morgana e il centralissimo Corso
Vittorio Emanuele, oggi in disuso). Come si evince dalla lista delle vivande,
il pranzo al Miramare fu in realtà un convito ufficiale tutt’altro che
sperimentale e futurista, e per questo è stato sino ad ora dimenticato o forse
volutamente escluso dagli studi dedicati alla gastronomia dei futuristi. La
motivazione di
tale dimenticanza trova una spiegazione logica solamente grazie
al rinvenimento della originale lista delle vivande, tra l’altro autografata
dallo stesso Marinetti. Veniamo alla lista delle vivande: ai commensali vennero
serviti Fusilli di Napoli al sugo, Pesce lesso con salse (salse purtroppo dalla
natura ignota) e Filetto alla giardiniera
(ovvero filetto di manzo, accompagnato da striscioline di melanzane e di
peperoni, cotto al forno); per dolce venne proposto il misterioso Gateau Miramare a cui fecero seguito Frutta allo sciroppo (della semplice
frutta sciroppata) e Caffè. La lista
delle vivande venne stilata molto tempo prima che il pranzo avvenisse, dato che
il menu dell’evento, a parte la firma in calce di Marinetti, riporta la data
del 2 marzo 1933.
Guido Andrea Pautasso
1) Si fa riferimento non tanto alla nota pièce I Prigionieri già pubblicata in Prigionieri e Vulcani (Vecchi Editore,
Milano 1927), bensì alla nuova versione dell’opera intitolata appunto I Prigionieri e l’amore, che debuttò al
Teatro Eden a Milano nel 1927 con le scenografie appositamente realizzate da
Benedetta. A precisarlo è Dario Tomasello nel saggio Oltre il Futurismo. Percorsi delle avanguardie in Sicilia. Con lettere
inedite di F. T. Marinetti, L. Russolo, P. Buzzi, C. Alvaro, Bulzoni
Editore, Roma 2000, p. 192.
2) Lo scrisse in una lettera spedita al futurista Ruggero
Vasari, datata Roma 7/ IV/ 1933 ora riprodotta nel saggio di Dario Tomasello, Oltre il Futurismo, cit. p. 192.
3) Informazioni sul Gruppo sono rintracciabili in Claudia Salaris-Luigi
Tallarico, “Calabria” in Futurismo e
Meridione, a cura di Enrico Crispolti, Electa Napoli, 1996, pp. 347-366 e nel
volume Calabria futurista 1909-1943.
Documenti, immagini, opere, a cura di Vittorio Cappelli e Luciano Caruso,
Rubettino Editore, Soveria Mannelli 1997.
4) Aliquo Lenzi, Umberto
Boccioni, s.e., Reggio Calabria 1932.
ALLA RIPRODUZIONE
DELLA LISTA VIVANDE DEL BANCHETTO FUTURISTA DI REGGIO CALABRIA E DELLA TESSERA
PER ACCEDERE ALLA CONFERENZA DI MARINETTI AL TEATRO POLITEMA SIRACUSA FANNO
SEGUITO ALCUNI DOCUMENTI APPARSI SULLA RIVISTA “FUTURISMO”
ONORANZE A UMBERTO BOCCIONI NELLA
NATIVA SUA TERRA CALABRESE
Nel marzo del 1931 i futuristi siciliani Guglielmo Jannelli
e Luciano Nicastro indirizzavano la seguente lettera aperta al Podestà di
Reggio Calabria. La lettera riprodotta da moltissimi giornali ebbe l’adesione
di tutti gli intellettuali calabresi.
E a distanza di due anni proprio mentre questo numero di
Futurismo vede la luce - concretate col concorso del cavaliere Gildo Ursini
Presidente dei Sindacati Intellettuali di Reggio Calabria e del Podestà Comm.
Muritano che con squisito pensiero ha voluto intitolare una bella strada di
Reggio al nome di Boccioni - si svolgono a Reggio Calabria le onoranze a
Boccioni con un discorso celebrativo tenuto da S.E. Marinetti al Politeama
Siracusa, e con un corteo di cittadini e di autorità che si reca a murare la
targa sulla via dedicata a Boccioni. Futurismo si associa alle onoranze
calabresi a Boccioni riproducendo la lettera di Jannelli e Nicastro che è un
lirico omaggio meridionale alla grandezza del genio futurista di Umberto
Boccioni.
Ecco la lettera:
Ill.mo sig. Podestà di Reggio Calabria
Voi sapete che a Roma sarà intitolata al nome di Umberto
Boccioni una delle tante nuove vie; voi sapete che in Romagna — dove vive
tutt’ora il padre di Boccioni — si preparano solenni onoranze, e un monumento
all’iniziatore, affermatore, creatore della modernità dinamica in pittura e
scultura, all’unico genio cioè dell’arte plastica d’oggi; a colui che fu nello
stesso tempo, a fianco di F.T. Marinetti, l’annunziatore chiarissimo ed
esplicito di un’epoca politica che poi si precisò «fascista».
Perché Boccioni fu pittore, scultore, letterato, poeta,
soldato volontario nella grande guerra in cui morì; ma l’ultimo periodo della
sua vita fu soprattutto legato all’urgenza del nostro intervento in guerra e al
risveglio guerresco della gioventù italiana.
Boccioni aveva scatenato nelle sue tele le nuove inebrianti
velocità liberando finalmente la sensibilità italiana dal Museo statico e dal
pauroso primitivismo.
Ma lavorando con un ardore diabolico e divino, massacrando
il suo fragile corpo nervoso; scolpendo a pugni la faccia dei denigratori del
Futurismo e dell’Italia. Nuova; inneggiando alla guerra e facendola — dopo
avere creato quelle sue potenti opere che rimangono tutt’ora le punte estreme
dell’arte plastica mondiale moderna — Boccioni aveva anche insegnato ai
giovani, in un periodo di fiacchezza, di scetticismo e di demagogia, a creare
ed amare quella nuova italianità artistica e politica, destinata a dominare il
mondo, che è oggi in atto.
Anima adusata ai più vasti e sconvolgenti pensieri: anima
oceanica per i suoi sogni, le sue aspirazioni e le sue realizzazioni. Boccioni
era il tipo del vero guidatore e del vero conquistatore. Italiano, insomma, di
quella italianità che il nostro tempo desidera ora trarre, senz’altro indugio,
dalla grande varietà delle regioni nostre, la quale non è un ostacolo, ma una
straordinaria ricchezza, per l’unità ideale della nostra stirpe.
Tutti sanno che Boccioni è morto in guerra, per una fatale
caduta da cavallo.
Ma vogliono essere proprio i Reggini d’oggi a lasciare ai
posteri l’incarico di indagare in quale città sia nato Umberto Boccioni?
Per l’appunto oggi in cui nessuno più in Italia — né dei
vecchi pittori accademici né nei novelli pittori futuristi — si sentirebbe
onorato se non andasse di tanto in tanto a deporre un lauro ai pie’ della
statua ideale innalzata dal tempo alla memoria del nostro grande amico
futurista, o a sfogliare — per sentirsi un po’ rinfrescare l’anima e la mente —
la «Opera Completa» di lui che l’editore Campitelli di Foligno ha ripubblicata
l’anno scorso con un’apertissima prefazione lirica di Marinetti, e preceduta da
un ritratto sotto cui è segnato: «Umberto Boccioni — nato il 19 ottobre 1882;
morto il 14 agosto 1916»?...
Ma dove dunque è nato Umberto Boccioni?
Noi che fummo amici di lui e fratelli delle sue prime
battaglie in qualcuna delle nostre gite a Reggio abbiamo potuto vedere un Atto
che col numero 1300 fa parte del «Registro delle nascite del Comune di Reggio
Calabria per l’anno 1882» e dal quale risulta che «Boccioni Umberto di Raffaele
e di Forlani Cecilia è nato in Reggio Calabria il giorno 19 del mese di ottobre
dell’anno 1882».
Nella bella Reggio risorta — dove ogni pietra ricorda che se
la sventura può abbattere, nulla essa però può ‘riuscire a togliere allo
spirito — noi che conosciamo di quale tempra siano l’ingegno e l’animo della
rude e forte e generosissima Calabria — ci siamo guardati un po’ smarriti e ci
siamo domandati — non vedendo apparir segnato in nessun luogo di codesta bella
città il nome del vostro e nostro Boccioni: «Ma, dunque, i Reggini ignorano che
Umberto Boccioni è nato in una delle loro case?».
La conoscenza di tale fatto basterebbe, signor Podestà, ad
invogliare non Reggio soltanto, ma la Calabria tutta a farsi promotrice di solenni
onoranze alla memoria di un con-terraneo così eccezionale.
Ma vi è di più.
Nella sua vita avventurosa (e avventurosa non propriamente
alla maniera del Cellini) — Boccioni ebbe sempre un vivo ricordo nostalgico
della Calabria. Lungo la Senna, dove lo portò il suo bisogno di lavoro e d’arte
— e sui fiumi della piccola Russia dove egli diciottenne portò in giro la sua
anima inquieta di creatore innamorato di ogni originalità — Boccioni non
dimenticò mai questo estremo lembo della penisola sulle cui rive aveva sentito
da fanciullo le prime forti impressioni di una tipica natura futurista, che,
con le sue albe e i suoi tramonti, richiama alla fantasia di un artista
qualcosa di omerico e di favoloso, e che si presta, nello stesso tempo, alle
più libere interpretazioni liriche, al più acceso dinamismo, a un trionfo
tumultuoso di colori variabilissimi ed eterni.
Boccioni sentiva l’orgoglio della sua origine meridionale: e
lo manifestava nei suoi scritti, dove non si ritroverebbe certamente tutta
quell’ansia dell’indagare e del costruire, del rivedere con occhio linceo la
storia della pittura; non si ritroverebbe certamente tanta forza d’espressione
e tanto bisogno di far quadrare il pensiero in giudizi ben organici definitivi
e precisi, se qualcosa della regione di Campanella non fosse rivissuta nella
sua anima e nel suo carattere.
Alla Calabria Boccioni sognava di tornare come al più felice
luogo di ispirazione. E di questo suo desiderio parlò caldamente una sera a noi
su un palcoscenico di Napoli, da dove aveva allora lanciato quel suo «Manifesto
ai pittori meridionali» che era un netto programma rivoluzionario e, in
anticipo, uno specchio tersissimo dei nostri tempi non solo artistici ma
politici.
Il destino che, uccidendolo a 34 anni, gli impedì di
compiere la sua Opera — già formidabile e già compiuta nelle sue vaste linee e
nelle sue infinite potenzialità — gli impedì anche di realizzare questo suo
desiderio sentimentale. E ci privò forse di un capolavoro: poiché egli che
vagheggiava nel 1915 dei «complessi plastici» senza cornici, fatti di vapori
colorati e di fasci di luci elettriche — avrebbe certamente trovato nelle
colorazioni e nelle miscele tumultuose piene di esplosioni dorate dei meriggi
calabresi sullo Stretto, di che creare un’opera ultracalabrese e
ultrafuturista, cioè ultradinamica e suggestiva.
È appunto perché la memoria e il nome di Boccioni possano
tornare nella terra di Calabria, che noi, amici meridionali di lui, oggi Vi
chiediamo, signor Podestà, che Reggio Calabria si faccia iniziatrice di onoranze
tanto più alte e significative quanto più tempo immemore è trascorso dalla
morte del grande italiano.
Noi chiediamo che Reggio ricordi ai propri cittadini e agli
italiani tutti Umberto Boccioni e intitoli al suo nome una delle principali
vie.
Si dia occasione alla forte e nobile Calabria di esprimere
pubblicamente la propria gioia per aver saputo di quale città è figlio
Boccioni; e si consenta presto ai Calabresi di accorrere in un teatro per udire
la voce di Marinetti il quale saprà adeguatamente glorificare il nome e l’opera
di Boccioni, e precisare tutta l’importanza che questo nome ha per l’Italia di
oggi e per l’arte mondiale moderna.
Luciano Nicastro – Guglielmo Jannelli
Luciano Nicastro-Guglielmo Jannelli, “Onoranze a Umberto
Boccioni nella nativa sua terra calabrese, “Futurismo”, anno II, n. 27, 12
marzo 1933.
Le onoranze a Umberto
Boccioni già fissate per il 12 marzo saranno procrastinate di qualche giorno
trovandosi in tale momento S. E. Marinetti a Leopoli dove la sera dell’11 si è
rappresentato per la prima volta il suo dramma I Prigionieri, come può leggersi
in altra parte di questo stesso numero del nostro giornale.
UMBERTO BOCCIONI CELEBRATO DA
MARINETTI A REGGIO CALABRIA
Quest’oggi S.E. Marinetti celebra a Reggio Calabria il
grande genio futurista UMBERTO BOCCIONI scomparso nella luminosa pienezza della
sua vitalità creativa. La città che diede i natali a uno dei più
rappresentativi precursori del nostro movimento ha così il giusto e dovuto
onore di dare inizio a quella celebrazione boccioniana che culminerà nella
inaugurazione del grande salone di Milano destinato ad accogliere tutta la
produzione artistica di avanguardia e che si fregerà col nome dal motto F U T U
R I S T A evocato dalla parola liricamente da S.E. Marinetti il fulminoso
spirito di Umberto Boccioni tornerà a rivivere nel limpido cielo e nel vivido
sole della Calabria T R I O N F A T O R
E
Anonimo (ma Mino Somenzi?), “Umberto Boccioni celebrato da
Marinetti a Reggio Calabria”, “Futurismo”, anno II, n. 30, 2 aprile 1933.
UMBERTO BOCCIONI E LO STRETTO DI MESSINA
Le onoranze nazionali che il Comune di Milano tributerà a
Umberto Boccioni sotto l’alto patronato di Benito Mussolini e l’ammirazione
entusiasta che le sue opere suscitano sempre più nelle avanguardie artistiche
di Parigi, Berlino, Varsavia, Vienna, Praga e Budapest da me visitate
recentemente, mi incita-no a ricercare il focolare generatore della sua
ispirazione originalissima. Alla vigilia della conflagrazione europea, una
signora milanese dilettante di chiromanzia intuiva prodigiosa-mente nella sua
forte mano di scultore una mortale caduta da cavallo, sinistramente armonizzata
colle muscolature tese dei quadrupedi da traino che egli aveva studiate lungo
la Senna e immortalate nel famoso quadro «La città che sale». Il viaggio a
Mosca Odessa e nel Caucaso, intrapreso da lui a 18 anni, come insegnante di
pittura di una ricca famiglia russa, non colorò certo la sua fantasia ma vi
apri dei profondi orizzonti di dolore gelato che furono poi fortunatamente
colmati dal biondo goliardico sole ottimista del futurismo italiano. In realtà
la poliveggente e tentacolare sensibilità plastica di Boccioni, questo errante
romagnolo di genio, è stata determinata dal paesaggio dinamico dello Stretto di
Messina, sentito da pupo a Reggio Calabria e da giovinetto a Messina e a
Catania.
Evidentemente i suoi nervi artistici bevvero poi la musicale
verde atmosfera romana di Villa Borghese col suo fluido oro vibrante che
inebriava l’alto navigante ballatoio del grande pittore futurista Giacomo Balia
suo maestro. Furono anche suoi maestri i fumanti camini della Milano di vent’anni
fa tutta travagliata dalle prime velocità industriali, tranviarie,
automobilistiche e aeree.
Occorreva però l’ampiezza di correnti e magie mediterranee
che forzano drammaticamente il varco di Scilla e Cariddi, fra l’orgoglio
esuberante dell’Etna e l’insidia dei terremoti improvvisi, per scatenare in
Boccioni quella sovrumana volontà di fissare plasticamente il moto assoluto e
il moto relativo dell’universo.
Non alludo qui a paesaggi presi come modelli e copiati, ma a
paesaggi trasfigurati o meglio a paesaggi goduti come eccitanti lirici dell’istinto
coloristico e volumetrico di un artista eccezionale.
In un articolo della Gazzetta
del Popolo io dimostrai come gli strapiombi di Capri, incensati dai
rimbalzanti scoppi di una bianca schiuma filmante, abbiano generato in Gustavo
Doré le altissime minacciose pareti del suo Inferno dantesco coi pericolosi
sentieri a picco sui fumi globulari delle bolge vampanti. Come Gustavo Doré non
riprodusse nelle sue opere l’isola di Capri così Umberto Boccioni non
riprodusse nelle sue lo Stretto di Messina: ma questo misteriosamente divenne
la policroma simultaneità elastica di linee-forza del suo capolavoro: «Il gioco
del Calcio».
Da pupo a Reggio Calabria e da giovinetto a Catania e a
Messina egli conobbe intimamente il capriccio dei venti, la varietà delle navi,
l’ambizione romantica delle nuvole, le morbosità perfide e maligne delle
correnti marine pronte a prodigare specchi femminili o a rabbuiarsi in combutta
coi più loschi e truci uragani. Certo gli furono amici i limoneti e gli
aranceti con le loro masse di verde variegate d’oro giallissimo sul turchi-no
intenso del mare. Si inerpicò per i fianchi delle montagne che armonizzano
bizzarramente la selvaggeria africana dei fichi d’India con la delicatezza dei
fogliami dell’olivo, il candore delle spiagge e l’ombra smeraldina dei
piroscafi all’àncora.
La storia dei terremoti e dei maremoti piena di stragi e di
eroismo gli era popolarmente distribuita in reiterate lezioni di temerità e di
spavaldo disprezzo della morte. Dovunque la prudenza e la saggezza calcolatrice
erano spazzate dal veemente soffio lungo dello Stretto e dalle sue nuvole
veloci rosse tutte impennacchiate di scintille vulcaniche. Così a vent’anni
Boccioni aveva appreso da quelle terre dure e soavi, bellicose e cangianti
amiche d’ogni catastrofe, quell’«amore del pericolo» che costituì uno dei
principii del primo manifesto futurista e animò gli interventisti milanesi come
lui decisi a osare, senza preparazione militare, la più grande guerra e a
morire per l’Italia.
Come lo Stretto di Messina, come i monti Calabri e come il
vasto sistema di vulcani accesi e spenti che si chiama l’Etna, «L’elasticità»,
«Gli stati d’animo», «Materia», «Muscoli in velocità» e «Dinamismo di un corpo
umano» contengono e insegnano l’ebrezza di tutti i coraggi, il divertimento di
tutte le spirali, lo slancio verso le più lontane stelle, il più appassionato
avvinghiamento di corpi in amore, le gare pazze di muscoli ruote ali, il furore
di calorie e di idee nella carne dell’uomo e nel metallo dei motori.
Senza l’ottimismo imperativo e il furore dinamico di quel
paesaggio io penso che Boccioni non avrebbe forse potuto ideare e precisare le
soluzioni del misterioso e affascinante problema che si chiama «Dinamismo
Plastico».
Filippo Tommaso Marinetti, “Umberto Boccioni e lo Stretto di
Messina”, “Futurismo”, n. 37, 21 maggio
1933.
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