EPOPEA DELLA CUCINA FUTURISTA

La cucina futurista, regolata come il motore di un idrovolante per alte velocità,
sembrerà ad alcuni tremebondi passatisti pazzesca e pericolosa:
essa invece vuol finalmente creare un'armonia tra il palato degli uomini e
la loro vita di oggi e di domani.
Filippo Tommaso Marinetti

«Mangia con arte per agire con arte»
, sosteneva Filippo Tommaso Marinetti, il primo a rivoluzionare secondo i principii della cucina futurista la gastronomia in Italia e nel mondo. Per scoprire la storia e i segreti della cucina degli artisti futuristi, leggete il volume di Guido Andrea Pautasso, Epopea della cucina futurista, pubblicato (in 300 copie numerate) dalle Edizioni Galleria Daniela Rallo di Cremona.

www.guidoandreapautasso.com
http://vampirofuturista.blogspot.it/

Traduzione in lingua russa di Irina Yaroslavtseva

Переводчик: Ярославцева Ирина



mercoledì 29 febbraio 2012

MARINETTI E IL FUTURISMO IN VERSILIA di Guido Andrea Pautasso





In anteprima per il lettori di www.cucinafuturista.blogspot.com il testo tratto nuovo libro in via di pubblicazione di Guido Andrea Pautasso intitolato Marinetti e la cucina futurista.


MARINETTI E IL FUTURISMO IN VERSILIA

Filippo Tommaso Marinetti soggiornò spesso in Toscana, e non solo a Firenze negli anni eroici del ‘Caffè Giubbe Rosse’ e di “Lacerba”.
“Il tattilismo”, l’ennesimo e provocatorio manifesto del capo futurista, nacque nell’estate del 1921 a casa di Primo Conti, ad Antignano, sulla costa labronica: «Nell'estate scorsa, ad Antignano, là dove la via Amerigo Vespucci, scopritore d'Americhe, s'incurva costeggiando il mare, inventai il Tattilismo. Sulle officine occupate dagli operai garrivano bandiere rosse. Ero nudo nell'acqua di seta, lacerata dagli scogli, forbici coltelli rasoi schiumosi, fra i materassi d'alghe impregnate di iodio. Ero nudo nel mare di flessibile acciaio, che aveva una respirazione virile e feconda. Bevevo alla coppa del mare piena di genio fino all'orlo. Il sole con le sue lunghe fiamme torrefacenti vulcanizzava il mio corpo e bullonava la chiglia della mia fronte ricca di vele». Il mare di Livorno fu dunque il palcoscenico ideale per una delle più ardite intuizioni e proclamazioni di Marinetti: «La Vita ha sempre ragione! I paradisi artificiali coi quali pretendete di assassinarla sono vani. Cessate di sognare un ritorno assurdo alla vita selvaggia. Guardatevi dal condannare le forze superiori della Società e le meraviglie della velocità. Guarite piuttosto la malattia del dopo-guerra, dando all'umanità nuove gioie nutrienti. Invece di distruggere le agglomerazioni umane, bisogna perfezionarle. Intensificate le comunicazioni e le fusioni degli esseri umani. Distruggete le distanze e le barriere che li separano nell'amore e nell'amicizia. Date la pienezza e la bellezza totale a queste due manifestazioni essenziali della vita: l'Amore e l'Amicizia».
Durante i suoi innumerevoli viaggi Marinetti si recò a Lucca, dove, nel 1933, presentò l’importante Mostra d’Arte Futurista voluta dal Gruppo Fascista “26 Ottobre 1920”, e andò a Pietrasanta, capoluogo della Versilia storica. Nel paese dove visse Michelangelo in molti affermano che egli si fosse recato alla Scuola di Belle Arti ad ascoltare le parole dello strambo e misconosciuto scultore Giulio Di Canale intento a proclamare il verbo rivoluzionario degli artisti futuristi agli attoniti studenti. Tuttavia, mentre non si ha alcuna certezza dell’incontro tra il pietrasantino e Marinetti, sicura invece è la presenza del leader futurista all’Elba. La piccola isola custodiva il buon retiro di Marinetti: un paesino chiamato Cavo, lontano dalla folla e dagli sguardi indiscreti. Qui, nella piazza centrale, Marinetti, in compagnia della moglie Benedetta, gustava in santa pace il cacciucco della ‘Locanda Pierolli’ godendosi i succulenti sapori del Mediterraneo.

All’inizio degli anni Venti, Viareggio era fervente di vita aristocratica, brillante e mondana e, oltre ad avere un forte richiamo turistico e vacanziero era da tempo una tra le località balneari predilette da artisti, da musicisti e da scrittori famosi come Pietro Mascagni, Luigi Pirandello, Marta Abba, Riccardo Bacchelli e Sem Benelli. Senza dimenticare poi che il litorale della Versilia, con l’avvento del fascismo, fu sempre più frequentato da importanti gerarchi del regime come Costanzo Ciano e Italo Balbo. Potevano mancare dunque all’appello Marinetti e il gruppo dei futuristi?
A Viareggio visse Giacomo Balla, e, seppur per poco tempo, vi abitò anche Fortunato Depero. Il futurista trentino soggiornò in un villino molto grazioso in via XX Settembre. In quelle piccole stanze Depero preparò i quadri da esporre all’importante Mostra d’arte d’avanguardia organizzata dall’avvocato Luigi Salvatori nelle sale del ‘Casinò Kursaal’ nel 1918, mostra alla quale partecipò assieme ad Enrico Prampolini, ad Ardengo Soffici e al giovanissimo Primo Conti.
Sempre al ‘Kursaal’, ma questa volta nel 1931, Marinetti incontrò Victor Aldo De Santis, ingegnere pistoiese vestito in maniera eccentrica. L’ingegnere rammenta così il fatidico rendez vous con il leader futurista: «Mi trovavo ad una festa da ballo al casinò Kursaal. La festa era all’aperto ed io ero abbigliato in maniera piuttosto anticonformista con un frac senza code: le code per me erano passatiste e le avevo fatte tagliare dal sarto. Era rimasto il giacchetto, naturalmente nero, con i bordi di raso: impeccabile. Senonché la novità maggiore veniva dalla camicia perché invece di avere uno sparato bianco con il fiocchino, lo sparato era di metallo. Io ero studente al Politecnico di Torino e lì, poiché studiavo le leghe leggere, avevo pensato di costruirmi uno sparato da sera con un metallo leggero. L’alluminio era trattato in maniera semilucida, tale che sembrava acciaio e per avere flessibilità era disposto in lamine chiodate agli estremi che lo facevano sembrare una corazza; sotto indossavo una camicia nera, e quindi i polsini che si intravedevano uscire dalla giacca erano neri. Non c’era niente di bianco perché, nella mia ideologia, tutto ciò che era bianco e inamidato ci riportava ad un’epoca passatista, romantica se si vuole, mentre noi eravamo proiettati verso il futuro, verso il trionfo del metallo». Marinetti, colpito dalla mise metallica, invitò l’ingegnere al suo albergo, ‘La Casina delle Rose’, e gli propose una collaborazione al movimento con uno scritto sulla moda futurista. Lo stravagante De Sanctis entrò allora in contatto con Fillìa, con Diulgheroff e con il gruppo dei futuristi torinesi; partecipò poi alla I Mostra Nazionale della Moda nella capitale sabauda e vinse il ‘Concorso per il Cappello Futurista’ bandito dal periodico “Futurismo” nel 1933 con un modello dotato di inserti di alluminio stile alettoni degli aeroplani.

In verità il vero ritrovo dell’élite degli artisti viareggini fu il Salone del ‘Bagno Nettuno’ sulla passeggiata. Al ‘Nettuno’ si riuniva da tempo il manipolo di proseliti della ‘Repubblica di Apua’: un cenacolo di artisti, intellettuali e rivoluzionari costituito da Ceccardo Roccatagliata Ceccardi, che, all'inizio del secolo scorso e per un decennio, infiammò la vita culturale del paese. ‘Apuani’ erano Alceste De Ambris (poi con D’Annunzio a Fiume), Luigi Campolonghi, Enrico Pea -che a sua volta in un tavolino riservato al ‘Caffè Roma’ a Forte dei Marmi fondò un altro rinomato circolo di intellettuali, il ‘Quarto Platano’-, Gian Pietro Lucini, Giuseppe Ungaretti, Dante Dini, Luigi Salvatori e i pittori Giuseppe Viner e Moses Levy, solo per ricordarne alcuni tra i più famosi.
Il ‘Nettuno’ era un locale ancora liberty, e Krimer (Cristoforo Mercati) nel suo Sodalizio con Viani lo descrive come un perfetto luogo d’incontro per amici, marinai e artisti: «Capitavano verso sera ad uno ad uno. Viani li accoglieva con quel suo fare bonario e scanzonato, e raccontava loro le novità della giornata. Un giorno venne Marinetti. Fu festa grande». Già perché Viareggio era la città di Lorenzo Viani, un’artista irrequieto, anarchico e rivoluzionario ancor prima di essere fascista, che disdegnava i locali alla moda, come il ‘Restaurant Margherita’ o la ‘Pasticceria Milanese’, mentre amava invece la vita selvaggia, le osterie e le vinerie più antiche della riviera della Versilia.
Viani scorrazzava con gli ‘Apuani’ nei locali versiliesi ineggiando alla rivoluzione molto prima che arrivasse il futurismo, mentre Lucini, declamando i versi insurrezionalisti di Apua Mater (1906), rivendicava la costituzione della «Repubblica d’Apua», terra d’anarchia e di ribellione.
Gli ‘Apuani’, a parte le serate al ‘Nettuno’, si ritrovavano a Viareggio al ‘Caffè Tonicelli’ sul lungomare, da ‘Lazzaro’ o all’‘Osteria del Giglio’, o alla ‘Buca dei Vàgeri’ (nome datogli da Viani) in Piazza Grande. Il loro ristorante preferito tuttavia era il ‘Buonamico’: un posto alla mano e pittoresco dove pasteggiavano seduti tutti insieme ad «un tavolone lungo», brindavano con una marea di fiaschi di vino della Valdinievole e dei Colli di Ripa, e il vivandiere serviva «triglie rosse, ciortoni dalla schiena d’oro, ragni d’argento, sogliole di color nocciola» cotti ovviamente secondo le antiche e povere ricette della tradizione locale.
Viani, quando non discuteva di arte con Ruggero Sargentini e con il giovane Uberto Bonetti (aeropittore e creatore del ‘Burlamacco’, maschera sintetica, simbolo ufficiale dal 1931 del Carnevale di Viareggio e poi della città), incantava i locali avventori del vecchio ‘Bar Prometeo’ di via Ugo Foscolo con tranches de vie di cavatori, marinai e girovaghi da lui stesso definiti i «vàgeri». Al ‘Bar Shelley’ o al ‘Principe’, locali vicini alla Darsena, frequentati da eleganti sfaccendati, l’artista sorseggiava dei «ponci neri», ossia dei fortissimi caffè corretti, meglio definiti come dei «caffè agghiacciati, al ruhm», dei quali, lui stesso, nel libro dedicato all’amico Ceccardo (1922), insegnava la base per la preparazione: «rhum scaldato, bicchiere immerso nell’acqua calda, scorze di limone». E di bevute di ponce a garganella scrisse anche il livornese Ivo Senesi in Bichilì, ovverossia: telefono numero (X x 25) – 30 ≤ 1070 (1932): in “Cecchino”, il protagonista dell’omonima novella si ubriaca e muore per colpa dei troppi «ponci-torpedine».
Ma che cos’era veramente il ponce? Questa bevanda alcolica, nata a Livorno tra il XVII e il XVIII secolo, derivava dal punch inglese preparato con ingredienti e spezie particolari provenienti dalle colonie britanniche. Quello alla ‘livornese’ sostituiva al tè o all'acqua bollente il caffè, e al posto del Rhum, tipico liquore delle Antille, fu presa l’abitudine di usare il cosiddetto Rumme fantasia: una miscela di alcol, zucchero e caramello scuro, aromatizzato soltanto con dell’essenza di rhum, secondo un’antica ricetta originale del ragioniere Gastone Biondi della ‘Ditta Vittori’. A volte al posto del Rumme fantasia veniva aggiunta la mastice, un liquore di semi di anice verde macerati in alcol; e sia il rumme, sia la mastice sino ai primi anni del Novecento erano di solito fabbricati dal proprietario del locale nel retrobottega. Esistevano ovviamente delle varianti del ponce classico, date dalla mistura del rhum e della mastice o dall’aromatizzazione con limone o arancia. La variante del ponce detta «torpedine» era una versione rinforzata del ponce stesso e si effettuava aggiungendo alla polvere di caffè una puntina di zenzero che conferiva una sapore forte e piccante alla bevanda. Nonostante in molti ritengano che l’usanza di bere il ponce o la torpedine sia scomparsa con gli anni Cinquanta, ancora oggi i pochi locali rimasti ad offrire veri piatti tradizionali della cucina versiliese (vedi la ‘Trattoria La Silvietta’ a Querceta), lo offrono ai loro clienti come ottimo digestivo e corroborante.

Altra figura curiosa del mileu artistico viareggino fu Cristoforo Mercati, in arte Krimer: pittore, scrittore ed aeropoeta di Lucca che, come Viani, aveva stabilito il suo ‘regno’ in Versilia. Krimer, anche in qualità di direttore di “Tirrena. Rivista della Lucchesia e della Riviera della Versilia”, animava gli eventi artistici e culturali della litorale dandosi instacabilmente da fare per promuovere il verbo del gruppo marinettiano. Le sue aeropoesie, pubblicate in Ali (1930), Il Sole Innamorato (1931), Ho rubato l’arcobaleno (1933), furono delle singolari composizioni cosmogoniche chiamate ad esaltare la figura dell’aviatore-aedo in grado di entrare in contatto con il divino. Alcuni giudicarono i suoi versi come delle opere ‘romantiche’, ma Lorenzo Viani li definì più sinteticamente dei «minuetti aerei». Quei ‘minuetti’ furono magicamente illustrati dai disegni di Spartaco Di Ciolo, dello stesso Viani, dei futuristi Uberto Bonetti, Osvaldo Bot, Gerardo Dottori, Antonio Marasco, Thayaht (Ernesto Michaelles), Enrico Prampolini e anche di Krimer, che da pittore idolatrava la macchina ed esaltava il volo.
Nella vita lo scrittore lucchese fu legato da un’amicizia profonda con Fedele Azari e con il pilota ‘ribelle’ Guido Keller: alla loro memoria dedicò Aviatori (1935) e si guadagnò così il giudizio entusiasta di Marinetti che non esitò a definirlo «un poeta futurista alato». Angelo Giani, nell’introduzione alla storia dei palombari viareggini intitolata Uomini de l’Artiglio (1937), scrisse invece: «Krimer ama i marinai di Viareggio come pochi. Tutta la sua attività multiforme di giornalista e di scrittore -dalla poesia al dramma, dalla novella al soggetto per il cinema- è dedicata agli aviatori d’Italia e ai marinai di Viareggio. Krimer conosce i lupi di mare delle nostre calate; sa i nomi, le storie, le avventure; non da dilettante e superficiale, ma da conoscitore appassionato sa dirti quale è l’odore di ogni coverta, il colore di ogni vela, il sapore di ogni osteria». In realtà per Giani, Krimer, «futurista tra i futuristi», per le sue descrizioni vive, forti, vere e commosse fu «il più romanticone tra i futuristi di questo mondo».

Sino ad ora, dopo tante divagazioni, abbiamo scritto fondamentalmente della vecchia Versilia e di una Viareggio popolaresca, vernacolare e marinara, e delle osterie o dei ristoranti ‘rustici’ «al di qua del fosso» del Canale Burlamacca, cioè vicine al porto e alla darsena, o addirittura lungo il viale dei Tigli verso Marina di Torre del Lago, dove i turisti allora non avevano nemmeno il coraggio di entrare.
Con il passare degli anni, e soprattutto con il consolidarsi del regime fascista, sparirono i covi dei sovversivi. A Viareggio, sotto la canicola estiva si cantava il ritornello di una canzonetta spiritosa, la Spiaggia d’or: «Sulla spiaggia d’or/ la gioventù sorride allegra e spensierata:/ e nel sol che inonda le piazze/ vi è un effluvio di baci e fior,/ un trionfo di belle ragazze/ di sorrisi, di gioia, di amor…». All’epoca, lasciata alle spalle l’influenza dell’arte Decò e Liberty, non c’era ancora la guerra, sul litorale crescevano a vista d’occhio gli stabilimenti balneari, atterravano gli aeroplani nel campo di aviazione alla periferia della città e gli idrovolanti ammaravano a frotte nel Lago di Puccini a Massaciuccoli (con i piloti entusiasti che si riunivano a gozzovigliare nelle sale dello ‘Chalet Emilio’, come testimoniano i numerosi ritratti lasciati da Lucio Venna). Il regime fascista, trovatosi di fronte all’esplosione di un fiorente turismo, affidò a due importanti architetti all’avanguardia, Luigi Nervi e Giovanni Michelucci, la realizzazione in chiave moderna della nuova stazione ferroviaria della cittadina.
A Viareggio si moltiplicarono i ritrovi mondani sul lungomare: vennero alla ribalta, oltre ai veglioni al ‘Kursaal’ e ai the danzanti al ‘Caffè Margherita’, locali notturni come ‘Il Gianni Schicchi’ e il caffè sulla passeggiata ‘Da Poldo’, entrambi disegnati in maniera avveniristica e con un tocco di futurismo sempre da Michelucci; mentre al ‘Dancing Chang’ si tennero vivaci serate denominate non a caso ‘futuriste’. La gente si riversava sulla riviera, e di giorno, sotto il solleone, negli stabilimenti balneari (famosi ed eleganti erano il ‘Bagno Balena’ e il ‘Bagno Colombo’) i bagnanti osservavano il passeggio degli ospiti illustri, dei gerarchi e dei parvenu che ostentavano un benessere destinato però ad essere spazzato via dall’avvento della guerra.

La Versilia, già ‘scoperta’ da Gabriele D’Annunzio, e definita dal Vate «il più bel luogo dell’universo», attrasse profondamente il capo del Futurismo. Tant’è vero che nel 1935 egli dedicò a quel luogo magico ed affascinante alcuni versi roboanti del suo Aeropoema del Golfo della Spezia: «Apuane 20 chilometri di ondulata bontà verde e poi le Apuane che sembrano piatte e senza ombre tanto si sono svuotate dei loro pesanti marmi splendidi per schiacciare nemici in battaglia 4000 metri sulle Cave di Carrara Fulminee liquide maledizioni su noi che fuori rotta tentiamo orientarci colla bussola sopra paesaggi annegati Intanto collaudati nuovi motori aerei nelle cabine di alta quota tutti su nella crepitante altalena d’una sempre più fresca corona di rose dentate e triangoli di folgori a 8000 metri d’aria rarefatta. 8000 metri su Viareggio Lassù lassù dove si sentono sulle guance le seriche dolci guance di Dio ogni cacciatore angelo irto di tizzoni veloci sentendosi ad un tratto attaccato alle spalle spia nel suo diabolico specchio».
Marinetti, nonostante adorasse la mondanità di Viareggio, dove sotto un ombrellone nel 1929 era nato il famoso premio letterario, era rimasto incantato soprattutto dalla Versilia. Il fascino di quel luogo selvaggio e meraviglioso crebbe in lui anche grazie ai racconti dei fratelli Michaelles, Ram (Roger) e Thayaht (Ernesto), quest’ultimo pittore e scultore dalle linee sinuose, proto-fashion designer, inventore della T-Tuta, e ideatore di una curiosa “Dieta Futurista” a base di verdura cruda e frutta fresca. Thayaht infatti trascorreva le sue estati al Tonfano, vicino a Marina di Pietrasanta, in una splendida casa-studio chiamata la Casa Gialla, e assieme ad Enrico Prampolini intendeva far nascere nei pressi del lungomare una colonia futurista naturista. Sulla spiaggia di Fiumetto spesso i curiosi vedevano l’artista correre sulla sabbia con un marchingegno da lui progettato, il carro-vela, uno strano quadriciclo che catturava il vento e l’energia sul quale salì persino l’indomito Marinetti negli anni Trenta.
Come abbiamo visto, a incantare il capo del Futurismo furono le Alpi Apuane (alle quali Marinetti dedicò i versi poco noti de “Il Poema delle cave di Carrara”) e soprattutto la magia che sprigionava da un particolare lembo di terra, laddove le montagne parevano sposarsi con il mare. Quel luogo, chiamato ‘futuristicamente’ Vittoria Apuana, era un paradiso d’altri tempi e vi regnavano la pace, la vegetazione selvatica e a dominare era soprattutto la natura incontaminata.
Nell’allora piccolo villaggio di Vittoria Apuana, nei pressi di Forte dei Marmi, Marinetti visse lunghi e frequenti periodi di villeggiatura con la moglie Benedetta a Villa Amelia, la residenza estiva della famiglia Pellizzi. La villa fu costruita, per volontà del professor Giovan Battista Pellizzi, sul selvaggio arenile quando la Versilia non era ancora contaminata da un certo turismo di massa, non esistevano ancora gli stabilimenti balneari e le uniche ville costruite sul mare appartenevano al medico fiorentino, alla famosa attrice Maria Melato e all’artista Felice Carena. La casa di mattoni rossi dei Pellizzi, affacciata sul litorale, fu frequentata dai grandi nomi della cultura italiana del tempo, a partire da Giovanni Gentile.
Dopo lunghe nuotate, bagni di sole in spiaggia e regate in barca a vela, Marinetti, quando era a Vittoria Apuana andava con la bicicletta a trovare Carlo Carrà nella sua casetta costruita nella pineta di Roma Imperiale, e con questi pranzava alla ‘Barca’, suggestivo ristorante affacciato sulla spiaggia, allo ‘Chalet sul mare Versilia già Moderno’, fra il Ponte Caricatore e il fiume Cinquale. Oppure, per immergersi nella natura incontaminata, Carrà e Marinetti superavano la pineta e il Cinquale, per sedersi in un rustico ristorante all’aperto, ‘Dalla Giulia’, o andavano dalla ‘Catè’, al Poveromo, a mangiare i ‘tordelli’, il pollo alla cacciatora con le barbe, la frittura di mare, il baccalà marinato e l’anguilla fritta cucinati da Caterina Bonfigli Mugelli.
Spesso il futurista si faceva vedere al ‘Dancing’ del ‘Grand Hotel’, ma anche allo ‘Chalet Savoia’ oppure al centralissimo ‘Caffè Principe’ di Vasco Galli. A volte si spingeva dall’altra parte della strada e andava a salutare gli amici seduti al ‘Quarto Platano’ del ‘Caffè Roma’, dove attorno ad Enrico Pea si era creato un circolo di artisti e di intellettuali, animato da Mino Maccari, da Carena e dall’immancabile Lorenzo Viani. Il gruppo, lasciato il vicino e troppo rumoroso ‘Caffè Fissi’, aveva scelto un appartato tavolino del ‘Caffè Roma’ sotto il quarto dei platani che ombreggiavano il lato sinistro della piazza del Fortino. Per anni sotto a quel platano si sedettero a disquisire di arte e cultura Giuseppe Ungaretti, Eugenio Montale, Achille Funi, Alberto Moravia, Cesare Pavese, Giuseppe De Robertis, Carlo Carrà, Ardengo Soffici e Mario Tobino, solo per ricordare alcuni tra i volti più noti che parteciparono a quelle ‘riunioni’ speciali.
Il futurista Marinetti però non mancava mai ad un’appuntamento fisso e mondano: quello dell’aperitivo alla ‘Capannina’ di Achille Franceschi (figura di spicco della Forte dei Marmi dell’epoca e albergatore comproprietario dell’importante ‘Grand Hotel Royal’ di Viareggio). Franceschi, durante l’estate del 1929, restaurò un vecchio capanno degli attrezzi sul mare e cominciò a servire aperitivi ad aristocratici e industriali in vacanza al suono di un radiogrammofono a manovella, ben presto sostituito da un’orchestra jazz. Il nome del locale venne dato da una nobildonna fiorentina, una delle sorelle Suarez, che a Franceschi disse: «Bello questo posto, sembra proprio una capannina». E alla ‘Capannina’ si dice che Marinetti, prima dell’imbrunire, aspettasse di assistere all’ammaraggio dell’idrovolante S.62 di Italo Balbo, seduto con Enrico Pea e con Krimer (il già ricordato Cristoforo Mercati), con Galeazzo e Edda Ciano, e con Alessandro Pavolini (poi diventato Ministro della Cultura Popolare e Segretario del Fascio Repubblicano a Salò). Come scrive Giorgio Giannelli ne La bibbia del Forte dei Marmi (1980), quando Balbo arrivava col suo gigantesco idrovolante chiamava Franceschi col megafono e questi gli spediva a bordo di un pattino il barman Nico dotato di shaker, di ghiaccio e di bottiglie perché servisse in acqua l’aperitivo agli ammarati.
Balbo, ministro dell’aeronautica dal 1926 al 1933, all’epoca faceva la spola tra Roma, il Lago di Massaciuccoli e Forte dei Marmi: qui aveva costruito il ‘Campeggio ALA’, con un hangar di tela posizionato sulla spiaggia vicino alla pineta, e per giorni, come scrisse egli stesso visse «quasi da primitivo». Tra le tende, di notte, alla luce dei falò e di nascosto dalla folla, si sussurrava che avvenissero orge e baccanali con splendide fanciulle. Una lettera anonima informò Mussolini degli atteggiamenti compromettenti del gerarca che si dice portasse la sua amante (nota come la contessa S.S.) a trascorrere nottate di sesso nella tenda arredata con sfarzose pelli di leoni e di orsi polari. Le voci dei festini e dei disinvolti atteggiamenti di Balbo scatenarono le ire -ma anche la gelosia- di Mussolini che per ripicca fece chiudere il campeggio. In seguito, prima dello scoppio della seconda guerra mondiale, anche ‘La Capannina’ venne chiusa per un breve periodo a causa di certi gerarchi che, in barba alle leggi sull’autarchia, si lasciavano andare a libagioni pantagrueliche seduti attorno a tavole illegalmente imbandite.
Inoltre per anni, si mormorò che il tragico abbattimento dell’aeroplano del quadrumviro Balbo da parte della contraera italiana a Tobruk nel 1941 fosse dovuto ad uno specifico ordine del duce. Secondo le voci di corridoio, Mussolini, stanco delle insinuazioni sulle pericolose ambizioni politiche di Balbo e soprattutto a causa dei suoi comportamenti immorali, fece colpire a tradimento il trimotore S.79 di Balbo in fase di atterraggio a Tobruk. E furono in molti a sostenere che la congiura fosse stata in realtà ordita da Curzio Malaparte per eliminare il fastidioso, potente e irriverente quadrumviro. Malaparte, colpevole o non colpevole che fosse, fu comunque condannato per le sue presunte malefatte ad un confino ‘dorato’ per cinque anni, condanna che fu spesa tra Ischia, Lipari e Forte dei Marmi.
La chiusura temporanea della ‘Capannina’ non fu la sola disavventura capitata al night-club fortemarmino. Nel 1939, il 21 febbraio, un violento incendio distrusse il capanno sulla spiaggia e ci vollero sessanta giorni perché quel piccolo tempio dello svago fosse di nuovo eretto su disegno dell’architetto d’interni Maurizio Tempestini. La ricostruzione fu fatta su di un progetto assolutamente non futurista che fece comunque perdere alla ‘Capannina’ quel suo fascino selvaggio e fuori dal tempo, rendendola tuttavia un locale più vasto, più accogliente e voluttuoso. Diventata poi un luogo simbolo della ‘Dolce Vita’ e di un epoca ormai tramontata, la ‘Capannina’ resta oggi un locale notturno storico, nonostante, dopo la gestione di Franceschi e la trasformazione in una discoteca, sia stata snaturata e non goda più di quell’atmosfera esclusiva e dello charme di un tempo.

Nessun commento:

Posta un commento