EPOPEA DELLA CUCINA FUTURISTA

La cucina futurista, regolata come il motore di un idrovolante per alte velocità,
sembrerà ad alcuni tremebondi passatisti pazzesca e pericolosa:
essa invece vuol finalmente creare un'armonia tra il palato degli uomini e
la loro vita di oggi e di domani.
Filippo Tommaso Marinetti

«Mangia con arte per agire con arte»
, sosteneva Filippo Tommaso Marinetti, il primo a rivoluzionare secondo i principii della cucina futurista la gastronomia in Italia e nel mondo. Per scoprire la storia e i segreti della cucina degli artisti futuristi, leggete il volume di Guido Andrea Pautasso, Epopea della cucina futurista, pubblicato (in 300 copie numerate) dalle Edizioni Galleria Daniela Rallo di Cremona.

www.guidoandreapautasso.com
http://vampirofuturista.blogspot.it/

Traduzione in lingua russa di Irina Yaroslavtseva

Переводчик: Ярославцева Ирина



giovedì 16 ottobre 2014

CUCINA FUTURISTA I Futuristi Boccioni la Nota della Lavandaia e il socialismo di Alessandrina Ravizza di Guido Andrea Pautasso





Boccioni, la Nota della lavandaia, e il socialismo umanitario di Alessandrina Ravizza

L’incontro tra il più grande artista futurista italiano, Umberto Boccioni e Alessandrina Ravizza, la storica portavoce del socialismo umanitario nel nostro paese, avvenne a Milano nel 1910. Da quell’incontro nacquero due iniziative straordinarie: la ‘Prima Esposizione d’Arte Libera’ a Milano nel 1911 e l’anno successivo la pubblicazione del libro Nota della lavandaia, scritto da Ravizza con la copertina adornata da un disegno a colori di Boccioni.
Luigi Russolo, pittore nonché musicista futurista inventore dell’Arte dei rumori, assieme a Boccioni, aveva l’abitudine di recarsi a mangiare la busecca in una affollata ed economica ‘Trattoria’ di via Cavallotti, che si trovava in centro a Milano, non troppo distante dal covo dei futuristi e di Filippo Tommaso Marinetti nella Casa Rossa in via Senato, né tanto meno dal più famoso e costoso ‘Ristorante Savini’. I due artisti futuristi seguivano le orme dell’amico Carlo Dalmazzo Carrà che, prima di aderire all’avanguardia marinettiana, proprio in quella trattoria aveva incontrato i volti noti dell’anarchia milanese che gli avevano commissionato i suoi primi disegni: alcuni bozzetti per le testate di riviste socialiste rivoluzionarie come “La Barricata”, “La Rivolta”, “La Sciarpa Nera” e “La Questione Sociale”. Nei locali rustici di via Cavallotti, dove gli anarchici architettavano le loro azioni rivoluzionarie, è possibile che vi pranzasse la ‘Madonna dei poveri’ Alessandrina Ravizza, fondatrice dell’‘Università Popolare’, nonché direttrice della ‘Casa del Lavoro per Disoccupati’ – associazione fondata dalla milanese ‘Società Umanitaria’-, membro dell’‘Unione Femminile Nazionale’ (la più importante associazione emancipazionista di orientamento radical-socialista in Italia) e la prima a costituire nel capoluogo lombardo (in via Anfiteatro 16) la ‘Cucina dei malati poveri’ per offrire cibo e assistenza gratuita agli indigenti sin dal 1888. Purtroppo non abbiamo alcuna certezza del luogo esatto dove avvenne l’incontro tra Ravizza e Boccioni: forse avvenne in via Cavallotti oppure i due si ritrovarono per caso seduti ad un tavolaccio in quella ‘Cucina dei malati poveri’. Di certo è che Boccioni, quando incontrò quella signora impegnata ad aiutare accattoni ed ammalati, le parlò del progetto di realizzare a Milano la ‘Prima Esposizione d’Arte Libera’: una mostra il cui ricavato delle vendite sarebbe stato destinato alla ‘Cassa sussidi per i disoccupati della Casa di Lavoro’, e che si rivelò di fondamentale importanza per il movimento futurista.
Ravizza venne coinvolta da Boccioni nell’organizzazione di una mostra aperta ad artisti più o meno affermati e di qualsiasi tendenza pittorica od età (come avveniva dal 1884 in Francia ai ‘Salons des Indépendants’). L’entusiasmo con cui Ravizza accolse la proposta di Boccioni ha indotto studiosi e critici a pensare anche alla possibilità che lei stessa fosse intervenuta direttamente nell’organizzazione dell’evento dando un particolare taglio ideologico alla stesura della lettera-invito all’esposizione. Il testo dell’invito (firmato da Boccioni, da Carrà, da Alessandro Mazzucotelli, da Guido Mazzocchi, da Ugo Nebbia e da Giovanni Rocco) precisava che alla mostra sarebbero state accolte «tutte le espressioni individuali dell’artista dal più umile e infantile sogno di bambino alla più complessa manifestazione della maturità del genio», perché quella esposizione sarebbe stata diversa da tutte le altre. La mostra dell’‘Arte Libera’ infatti avrebbe dimostrato che «il senso artistico, ritenuto privilegio di pochi, è innato nella natura umana, e che le forme con le quali esso si manifesta sono semplici esponenti della maggiore o minore sensibilità di chi le concreta», senza che esista alcuna pregiudiziale politica, economica o sociale. Inoltre all’esposizione non vi sarebbe stata alcuna giuria e nessuna valutazione delle opere da parte di critici d’arte. I firmatari precisarono che non intendevano assolutamente escludere «chi facendo dell’arte una professione, educa e perfeziona le qualità naturali», ma si premuravano soprattutto di invitare quanti intendessero «affermare qualche cosa di nuovo, lungi cioè da imitazioni, derivazioni e contraffazioni» e coloro che tentavano «di esprimersi diversamente» da ciò che era «comune e convenzionale». In nome della libertà d’espressione gli organizzatori reclamavano la ricerca «di un’arte più ingenua, più istintiva, riportata alle sue sane origini» e invitavano ad esporre i ragazzi, gli operai e tutti quegli uomini «che adoperano il linguaggio universale delle forme e dei colori per fissare ciò che la parola mal saprebbe esprimere».
All’esposizione, in un padiglione della fabbrica ‘Ricordi’ al numero ventuno di viale Vittoria, in una ex-officina grafica posta quasi al limitare della campagna milanese, furono esposte quattrocento opere di pittori e di artisti quasi esclusivamente milanesi. In uno spazio distinto, chiamato la ‘Sala futurista’, oltre alle opere di Boccioni, furono raccolte le tele di Carrà e quelle di Russolo, tutte audacemente accostate a dei disegni di un bambino di sette anni -come testimonia Boccioni in un’ appassionata lettera scrivendo a sua cugina Adriana Bisi Fabbri, pittrice autodidatta e caricaturista affermata.
Boccioni espose opere futuriste caratterizzate da una forte vena antiborghese, come Retata, Baruffa, La città che sale -presentato ancora con il primo titolo, Il lavoro- e La risata, quest’ultimo considerato estremamente provocatorio e custode di un messaggio sovversivo ed immorale. Gino Agnese, nel libro dedicato all’artista, Vita di Boccioni, sostiene che La risata esprimeva una notevole carica rivoluzionaria in quanto, rifacendosi ai concetti espressi in Le rire. Essai sur la signification du comique (1900) da Henri Bergson, Boccioni aveva reso la risata un «gesto sociale» e rivoluzionario, trasformando l’esplosione del ridere in un «folgorante correttivo del conformismo, che appunto è comico nella sua rigidità ripetitiva e grigia». Gino Agnese offre una descrizione del quadro affascinante, non limitandosi a presentare l’opera come il semplice ritratto, dalla grottesca esagerazione, di tre cocotte e di tre viveur seduti al ristorante, dato che il dipinto «raffigura simultaneamente e fantasticamente le luci, le figure, i colori, gli arredi di un grande, affollato caffè, nel quale trionfa l’opulenza giunonica d’una donna che ride, ride beata e così diffonde la sua ilarità in tutto l’ambiente come un vento sonoro che fa quasi tintinnare i bicchieri, investe i pensieri gravi di alcuni uomini che le sono d’intorno e solleva, sopra un concerto di tinte accese, un’immensa piuma di struzzo gialla». L’opera, un inno alla vita notturna e alle figure febbrili del viveur e della cocotte, è una composizione pienamente futurista nonostante i forti rimandi alla pittura espressionista e la presenza di tagli scompositivi (da intendersi in chiave più cubista che futurista) che si accentuano grazie alla violenza accecante dei colori sfacciati ed impetuosi.
La risata diventò subito un’opera fondamentale, simbolo dell’esaltazione vitalistica dei futuristi, e dopo l’‘Esposizione d’arte libera’ milanese, venne presentata l’anno successivo al grande pubblico internazionale alla Exhibition of Works by the Italian Futurist Painters (significativa mostra, tenutasi alla ‘Sackville Gallery’ di Londra nel 1912, che propose tele di Carrà, di Russolo e di Gino Severini o altre a quelle dipinte da Boccioni). Nel catalogo della mostra Boccioni stesso descrisse La risata con parole che rimandavano ai concetti di movimento, di trasparenza, di compenetrazione di piani e di visione multipla delle immagini. Tali concetti, associati alla nuova poetica del ‘trascendentalismo fisico’ e alle nuove scoperte scientifiche dell’epoca -come i raggi x di Roentgen- diventarono via via gli elementi tipici della pittura dell’artista futurista milanese: «The scene is round the table of a restaurant where all are gay. The personages are studied from all sides and both the objects in front and those all the back are to be seen, all these being present in the painter’s memory, so that the principle of the Roetgen rays is applied to the picture».
Tuttavia durante la mostra milanese del 1911, La risata venne sfregiata per protesta probabilmente da uno squilibrato armato della lama di un rasoio o, forse, di un coltello. All’epoca si scatenarono molte congetture riguardo la natura di quell’inspiegabile gesto; in molti pensarono che fosse stato un’artista non ammesso tra gli espositori, altri credettero che dietro l’aggressione vi fosse la mano di una fanciulla abbandonata o delusa dal tombeur de femme Boccioni. Carlo Carrà ipotizzò invece la vendetta di «anonimi nemici esasperati» dal successo dei futuristi, e scagliò le sue invettive contro la «viltà dei passatisti» in un volantino -scritto assieme a Russolo e a Boccioni- intitolato Un quadro futurista sfregiato dai Passatisti: «Noi Futuristi denunciamo al disprezzo universale la vigliaccheria dei nostri avversari passatisti, i quali hanno sconciamente sfregiato il quadro La risata di Umberto Boccioni. Questi anonimi nemici, esasperati dal grande successo della PRIMA ESPOSIZIONE LIBERA D’ARTE, ideata da noi, e nella quale trionfano, senza possibilità di confronti CINQUANTA NOSTRI QUADRI FUTURISTI, credettero senza dubbio di offuscare così la nostra nuova vittoria, mentre dovunque la gioia sorride al nostro inesauribile, oceanico genio creatore. Costoro ci fanno schifo e pietà insieme». Lo squarcio sulla tela costrinse Boccioni a riparare il quadro e, poi, in un secondo tempo addirittura a ridipingerlo, accentuandone in parte le già presenti componenti cubiste: questa nuova versione della Risata, come già ricordato, venne esposta in occasione della tournée internazionale delle mostre futuriste a Londra, Parigi e Berlino, accompagnate nei rispettivi cataloghi dalla descrizione poetica offerta da Boccioni (Oggi La risata si trova al ‘Museum of Modern’ Art di New York, donata da Herbert e Nannette Rotschild nel 1959. Quanti hanno avuto modo di prendere visione del retro della tela hanno affermato che questa non presenta alcun taglio o sfregio ed hanno avvalorato l’ipotesi di un eventuale rifacimento del quadro sotto l’influenza dei dipinti di Pablo Picasso, di Georges Braque e soprattutto di alcune opere di Gino Severini come La danse du «pan pan» au Monico e La Danseuse obsédante).
Nonostante l’episodio dello sfregio, la mostra milanese dell’‘Arte Libera’ ebbe un notevole successo di pubblico, con i giornalisti che recensirono favorevolmente i quadri di Boccioni per la loro audacia e impatto coloristico; mentre per alcuni futuristi le stroncature da parte della critica  furono molto sferzanti. Se Nino Barbantini, recensendo la mostra su “L’Avvenire d’Italia”, segnalò che tra le quattrocento opere esposte le uniche che non fossero inutili ed insignificanti erano quelle di Boccioni e di Carrà, sul “Corriere della Sera” un certo A.C. distinse con sarcasmo gli «artisti veri» presenti alla mostra dai futuristi che avevano «potuto sfogare le più folli orge coloristiche, le più matte stramberie, le fantasie più macabre, tutte le ubbriacature possibili e immaginabili». Di fronte a quella provocazione Marinetti fece stampare la risposta degli artisti del movimento in un ironico volantino intitolato 50 quadri futuristi: «Cittadini! Se non volete coprirvi di vergogna, dando prova di una ignominiosa apatia intellettuale, indegna degli alti destini futuristi di Milano, correte a inebriarvi lo spirito davanti ai 50 quadri futuristi di Boccioni Carrà e Russolo […]. Questa esplosione del genio futurista è la sola glorificazione del Cinquantenario d’Italia». Le stroncature non arrivarono soltanto dai quotidiani locali; Ardengo Soffici, con la complicità di Giuseppe Prezzolini, non esitò a colpire con veemenza l’‘Esposizione dell’Arte Libera’ scrivendo, il 2 giugno del 1911, un sarcastico articolo sulla rivista fiorentina “La Voce” (“Arte libera e pittura futurista”), dove si prendeva giuoco delle invenzioni pittoriche del futurismo. La reazione di Marinetti non si fece attendere: i futuristi milanesi, inferociti dalla stroncatura, partirono alla volta di Firenze per colpire i nemici de “La Voce” con una sorprendente spedizione punitiva. Una settimana dopo la pubblicazione della recensione di Soffici, Boccioni, Russolo, Carrà e Marinetti, si scontrarono con i ‘vociani’ in una violenta rissa esplosa al ‘Caffè delle Giubbe Rosse’ e che si concluse soltanto in questura, dove i celerini, stupefatti, faticarono a lungo prima di riuscire a placare gli animi dei contendenti. Nonostante la scazzottata (raccontata anche in un volantino futurista intitolato Schiaffi, pugni e quadri futuristi) la riconciliazione fu possibile grazie alla mediazione di Aldo Palazzeschi e Gino Severini: Soffici e Giovanni Papini si avvicinarono al Futurismo e, attratti dal pensiero avanguardista di Marinetti, dettero poi vita alla storica rivista futurista “Lacerba”.
Ma ritorniamo ancora al vernissage della ‘Prima Esposizione d’Arte Libera’: mentre Marinetti propagandava le teorie artistiche del movimento nel tentativo di coinvolgere pubblico e giornalisti con la sua esposizione enfatica, Alessandrina Ravizza incontrò Boccioni. Nel trambusto della ‘Sala Futurista’ Ravizza chiese all’artista se avesse voluto realizzare un disegno apposta per lei: non desiderava un ritratto, bensì un’immagine forte e futurista per la copertina del suo ultimo libro intitolato la Nota della lavandaia, che raccontava la storia e la miseria del mondo dei poveri e dei disoccupati milanesi: un mondo popolato da «viandanti della sfortuna» capaci però di lasciare «una impronta che il tempo non distrugge», argomento già trattato ne I miei ladruncoli.
Allora Boccioni tornò nel suo studio e tracciò a matita rossa una delle sue più inquietanti e vorticose visioni simultanee: un’opera che attraverso l’immagine di un volto urlante e sconvolto da una esplosione di luce solare, affermava l’esaltazione lirica e la plastica manifestazione dello spettacolo dato dalla vita moderna sotto forma di una visione multipla, dinamica, che perpetrava nel segno dell’artista l’inizio o il miraggio dell’avvento di una nuova era. Il grido e il viso di quell’essere sconvolto, metà uomo e metà fiera, era l’espressione dell’ansia e soprattutto del desiderio violento di riscatto sociale dei poveri e dei sofferenti raccontati nel libro dalla Ravizza, il cui destino era segnato da una società ingiusta che per Boccioni non attendeva altro se non l’esplosione della rivolta del Futurismo. E così il libro Nota della lavandaia, pubblicato in occasione del Capodanno del 1912 in pochissime copie, ebbe l’onore e la fortuna di avere sulla copertina uno tra i disegni meno noti del più innovativo artista italiano del Novecento.

Guido Andrea Pautasso

BIBLIOGRAFIA
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Carrà (Carlo)-Russolo (Luigi)-Boccioni (Umberto), Un quadro futurista sfregiato dai Passatisti,  s.l. (ma Milano), Movimento Futurista, Prima Esposizione Libera viale Vittoria, 21 (ex stabilimento Ricordi), s.d. (ma maggio 1911).
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Ravizza Alessandrina, Nota della lavandaia, Milano, Cooperativa Tipografia degli Operai 1912 (copertina illustrata a colori da Umberto Boccioni).
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