Boccioni, la Nota della lavandaia, e il socialismo umanitario di Alessandrina
Ravizza
L’incontro
tra il più grande artista futurista italiano, Umberto Boccioni e Alessandrina
Ravizza, la storica portavoce del socialismo umanitario nel nostro paese, avvenne
a Milano nel 1910. Da quell’incontro nacquero due iniziative straordinarie: la
‘Prima Esposizione d’Arte Libera’ a Milano nel 1911 e l’anno successivo la
pubblicazione del libro Nota della
lavandaia, scritto da Ravizza con la copertina adornata da un disegno a
colori di Boccioni.
Luigi
Russolo, pittore nonché musicista futurista inventore dell’Arte dei rumori, assieme a Boccioni, aveva l’abitudine di recarsi a
mangiare la busecca in una affollata
ed economica ‘Trattoria’ di via Cavallotti, che si trovava in centro a Milano,
non troppo distante dal covo dei futuristi e di Filippo Tommaso Marinetti nella
Casa Rossa in via Senato, né tanto
meno dal più famoso e costoso ‘Ristorante Savini’. I due artisti futuristi
seguivano le orme dell’amico Carlo Dalmazzo Carrà che, prima di aderire
all’avanguardia marinettiana, proprio in quella trattoria aveva incontrato i
volti noti dell’anarchia milanese che gli avevano commissionato i suoi primi
disegni: alcuni bozzetti per le testate di riviste socialiste rivoluzionarie
come “La Barricata”, “La Rivolta”, “La Sciarpa Nera” e “La Questione Sociale”. Nei
locali rustici di via Cavallotti, dove gli anarchici architettavano le loro
azioni rivoluzionarie, è possibile che vi pranzasse la ‘Madonna dei poveri’
Alessandrina Ravizza, fondatrice dell’‘Università Popolare’, nonché direttrice
della ‘Casa del Lavoro per Disoccupati’ – associazione fondata dalla milanese
‘Società Umanitaria’-, membro dell’‘Unione Femminile Nazionale’ (la più
importante associazione emancipazionista di orientamento radical-socialista in
Italia) e la prima a costituire nel capoluogo lombardo (in via Anfiteatro 16)
la ‘Cucina dei malati poveri’ per offrire cibo e assistenza gratuita agli
indigenti sin dal 1888. Purtroppo non abbiamo alcuna certezza del luogo esatto
dove avvenne l’incontro tra Ravizza e Boccioni: forse avvenne in via Cavallotti
oppure i due si ritrovarono per caso seduti ad un tavolaccio in quella ‘Cucina
dei malati poveri’. Di certo è che Boccioni, quando incontrò quella signora
impegnata ad aiutare accattoni ed ammalati, le parlò del progetto di realizzare
a Milano la ‘Prima Esposizione d’Arte Libera’: una mostra il cui ricavato delle
vendite sarebbe stato destinato alla ‘Cassa sussidi per i disoccupati della
Casa di Lavoro’, e che si rivelò di fondamentale importanza per il movimento
futurista.
Ravizza
venne coinvolta da Boccioni nell’organizzazione di una mostra aperta ad artisti
più o meno affermati e di qualsiasi tendenza pittorica od età (come avveniva
dal 1884 in Francia ai ‘Salons des Indépendants’). L’entusiasmo con cui Ravizza
accolse la proposta di Boccioni ha indotto studiosi e critici a pensare anche
alla possibilità che lei stessa fosse intervenuta direttamente nell’organizzazione
dell’evento dando un particolare taglio ideologico alla stesura della
lettera-invito all’esposizione. Il testo dell’invito (firmato da Boccioni, da
Carrà, da Alessandro Mazzucotelli, da Guido Mazzocchi, da Ugo Nebbia e da Giovanni
Rocco) precisava che alla mostra sarebbero state accolte «tutte le espressioni
individuali dell’artista dal più umile e infantile sogno di bambino alla più
complessa manifestazione della maturità del genio», perché quella esposizione
sarebbe stata diversa da tutte le altre. La mostra dell’‘Arte Libera’ infatti avrebbe
dimostrato che «il senso artistico, ritenuto privilegio di pochi, è innato
nella natura umana, e che le forme con le quali esso si manifesta sono semplici
esponenti della maggiore o minore sensibilità di chi le concreta», senza che
esista alcuna pregiudiziale politica, economica o sociale. Inoltre
all’esposizione non vi sarebbe stata alcuna giuria e nessuna valutazione delle
opere da parte di critici d’arte. I firmatari precisarono che non intendevano assolutamente
escludere «chi facendo dell’arte una professione, educa e perfeziona le qualità
naturali», ma si premuravano soprattutto di invitare quanti intendessero «affermare
qualche cosa di nuovo, lungi cioè da
imitazioni, derivazioni e contraffazioni» e coloro che tentavano «di esprimersi
diversamente» da ciò che era «comune e convenzionale». In nome della libertà
d’espressione gli organizzatori reclamavano la ricerca «di un’arte più ingenua,
più istintiva, riportata alle sue sane origini» e invitavano ad esporre i
ragazzi, gli operai e tutti quegli uomini «che adoperano il linguaggio
universale delle forme e dei colori per fissare ciò che la parola mal saprebbe
esprimere».
All’esposizione,
in un padiglione della fabbrica ‘Ricordi’ al numero ventuno di viale Vittoria, in
una ex-officina grafica posta quasi al limitare della campagna milanese, furono
esposte quattrocento opere di pittori e di artisti quasi esclusivamente
milanesi. In uno spazio distinto, chiamato la ‘Sala futurista’, oltre alle
opere di Boccioni, furono raccolte le tele di Carrà e quelle di Russolo, tutte
audacemente accostate a dei disegni di un bambino di sette anni -come
testimonia Boccioni in un’ appassionata lettera scrivendo a sua cugina Adriana
Bisi Fabbri, pittrice autodidatta e caricaturista affermata.
Boccioni
espose opere futuriste caratterizzate da una forte vena antiborghese, come Retata, Baruffa, La città che sale
-presentato ancora con il primo titolo, Il
lavoro- e La risata, quest’ultimo
considerato estremamente provocatorio e custode di un messaggio sovversivo ed
immorale. Gino Agnese, nel libro dedicato all’artista, Vita di Boccioni, sostiene che La
risata esprimeva una notevole carica rivoluzionaria in quanto, rifacendosi
ai concetti espressi in Le rire. Essai
sur la signification du comique (1900) da Henri Bergson, Boccioni aveva
reso la risata un «gesto sociale» e rivoluzionario, trasformando l’esplosione
del ridere in un «folgorante correttivo del conformismo, che appunto è comico
nella sua rigidità ripetitiva e grigia». Gino Agnese offre una descrizione del
quadro affascinante, non limitandosi a presentare l’opera come il semplice
ritratto, dalla grottesca esagerazione, di tre cocotte e di tre viveur seduti
al ristorante, dato che il dipinto «raffigura simultaneamente e fantasticamente
le luci, le figure, i colori, gli arredi di un grande, affollato caffè, nel
quale trionfa l’opulenza giunonica d’una donna che ride, ride beata e così
diffonde la sua ilarità in tutto l’ambiente come un vento sonoro che fa quasi
tintinnare i bicchieri, investe i pensieri gravi di alcuni uomini che le sono
d’intorno e solleva, sopra un concerto di tinte accese, un’immensa piuma di
struzzo gialla». L’opera, un inno alla vita notturna e alle figure febbrili del
viveur e della cocotte, è una composizione pienamente futurista nonostante i forti
rimandi alla pittura espressionista e la presenza di tagli scompositivi (da
intendersi in chiave più cubista che futurista) che si accentuano grazie alla violenza
accecante dei colori sfacciati ed impetuosi.
La risata diventò subito un’opera fondamentale, simbolo dell’esaltazione
vitalistica dei futuristi, e dopo l’‘Esposizione d’arte libera’ milanese, venne
presentata l’anno successivo al grande pubblico internazionale alla Exhibition of Works by the Italian Futurist
Painters (significativa mostra, tenutasi alla ‘Sackville Gallery’ di Londra
nel 1912, che propose tele di Carrà, di Russolo e di Gino Severini o altre a
quelle dipinte da Boccioni). Nel catalogo della mostra Boccioni stesso
descrisse La risata con parole che rimandavano
ai concetti di movimento, di trasparenza, di compenetrazione di piani e di
visione multipla delle immagini. Tali concetti, associati alla nuova poetica
del ‘trascendentalismo fisico’ e alle nuove scoperte scientifiche dell’epoca
-come i raggi x di Roentgen- diventarono via via gli elementi tipici della
pittura dell’artista futurista milanese: «The scene is round the table of a
restaurant where all are gay. The personages are studied from all sides and both the
objects in front and those all the back are to be seen, all these being present
in the painter’s memory, so that the principle of the Roetgen rays is applied
to the picture».
Tuttavia durante la mostra
milanese del 1911, La risata
venne sfregiata per protesta probabilmente da uno squilibrato armato della lama
di un rasoio o, forse, di un coltello. All’epoca si scatenarono molte
congetture riguardo la natura di quell’inspiegabile gesto; in molti pensarono
che fosse stato un’artista non ammesso tra gli espositori, altri credettero che
dietro l’aggressione vi fosse la mano di una fanciulla abbandonata o delusa dal
tombeur de femme Boccioni. Carlo
Carrà ipotizzò invece la vendetta di «anonimi nemici esasperati» dal successo
dei futuristi, e scagliò le sue invettive contro la «viltà dei passatisti» in
un volantino -scritto assieme a Russolo e a Boccioni- intitolato Un quadro futurista sfregiato dai Passatisti:
«Noi Futuristi denunciamo al disprezzo universale la vigliaccheria dei nostri
avversari passatisti, i quali hanno sconciamente sfregiato il quadro La risata di Umberto Boccioni. Questi
anonimi nemici, esasperati dal grande successo della PRIMA ESPOSIZIONE LIBERA
D’ARTE, ideata da noi, e nella quale trionfano, senza possibilità di confronti
CINQUANTA NOSTRI QUADRI FUTURISTI, credettero senza dubbio di offuscare così la
nostra nuova vittoria, mentre dovunque la gioia sorride al nostro inesauribile,
oceanico genio creatore. Costoro ci fanno schifo e pietà insieme». Lo squarcio
sulla tela costrinse Boccioni a riparare il quadro e, poi, in un secondo tempo
addirittura a ridipingerlo, accentuandone in parte le già presenti componenti
cubiste: questa nuova versione della Risata, come già ricordato, venne
esposta in occasione della tournée internazionale
delle mostre futuriste a Londra, Parigi e Berlino, accompagnate nei rispettivi
cataloghi dalla descrizione poetica offerta da Boccioni (Oggi La risata si trova al ‘Museum of Modern’
Art di New York, donata da Herbert e Nannette Rotschild nel 1959. Quanti hanno
avuto modo di prendere visione del retro della tela hanno affermato che questa
non presenta alcun taglio o sfregio ed hanno avvalorato l’ipotesi di un
eventuale rifacimento del quadro sotto l’influenza dei dipinti di Pablo Picasso,
di Georges Braque e soprattutto di alcune opere di Gino Severini come La danse du «pan pan» au Monico e La Danseuse obsédante).
Nonostante
l’episodio dello sfregio, la mostra milanese dell’‘Arte Libera’ ebbe un notevole
successo di pubblico, con i giornalisti che recensirono favorevolmente i quadri
di Boccioni per la loro audacia e impatto coloristico; mentre per alcuni futuristi
le stroncature da parte della critica furono molto sferzanti. Se Nino Barbantini,
recensendo la mostra su “L’Avvenire d’Italia”, segnalò che tra le quattrocento
opere esposte le uniche che non fossero inutili ed insignificanti erano quelle
di Boccioni e di Carrà, sul “Corriere della Sera” un certo A.C. distinse con
sarcasmo gli «artisti veri» presenti alla mostra dai futuristi che avevano
«potuto sfogare le più folli orge coloristiche, le più matte stramberie, le
fantasie più macabre, tutte le ubbriacature possibili e immaginabili». Di
fronte a quella provocazione Marinetti fece stampare la risposta degli artisti
del movimento in un ironico volantino intitolato 50 quadri futuristi: «Cittadini! Se non volete coprirvi di
vergogna, dando prova di una ignominiosa apatia intellettuale, indegna degli
alti destini futuristi di Milano, correte a inebriarvi lo spirito davanti ai 50
quadri futuristi di Boccioni Carrà e Russolo […]. Questa esplosione del genio
futurista è la sola glorificazione del Cinquantenario d’Italia». Le stroncature
non arrivarono soltanto dai quotidiani locali; Ardengo Soffici, con la
complicità di Giuseppe Prezzolini, non esitò a colpire con veemenza l’‘Esposizione
dell’Arte Libera’ scrivendo, il 2 giugno del 1911, un sarcastico articolo sulla
rivista fiorentina “La Voce” (“Arte libera e pittura futurista”), dove si
prendeva giuoco delle invenzioni pittoriche del futurismo. La reazione di
Marinetti non si fece attendere: i futuristi milanesi, inferociti dalla
stroncatura, partirono alla volta di Firenze per colpire i nemici de “La Voce”
con una sorprendente spedizione punitiva. Una settimana dopo la pubblicazione
della recensione di Soffici, Boccioni, Russolo, Carrà e Marinetti, si
scontrarono con i ‘vociani’ in una violenta rissa esplosa al ‘Caffè delle
Giubbe Rosse’ e che si concluse soltanto in questura, dove i celerini,
stupefatti, faticarono a lungo prima di riuscire a placare gli animi dei
contendenti. Nonostante la scazzottata (raccontata anche in un volantino futurista
intitolato Schiaffi, pugni e quadri
futuristi) la riconciliazione fu possibile grazie alla mediazione di Aldo Palazzeschi e Gino Severini: Soffici e Giovanni Papini si avvicinarono al Futurismo e,
attratti dal pensiero avanguardista di Marinetti, dettero poi vita alla storica
rivista futurista “Lacerba”.
Ma
ritorniamo ancora al vernissage della
‘Prima Esposizione d’Arte Libera’: mentre Marinetti propagandava le teorie
artistiche del movimento nel tentativo di coinvolgere pubblico e giornalisti
con la sua esposizione enfatica, Alessandrina Ravizza incontrò Boccioni. Nel
trambusto della ‘Sala Futurista’ Ravizza chiese all’artista se avesse voluto
realizzare un disegno apposta per lei: non desiderava un ritratto, bensì un’immagine
forte e futurista per la copertina del suo ultimo libro intitolato la Nota della lavandaia, che raccontava la
storia e la miseria del mondo dei poveri e dei disoccupati milanesi: un mondo
popolato da «viandanti della sfortuna» capaci però di lasciare «una
impronta che il tempo non distrugge», argomento già trattato ne I miei ladruncoli.
Allora
Boccioni tornò nel suo studio e tracciò a matita rossa una delle sue più
inquietanti e vorticose visioni
simultanee: un’opera che attraverso l’immagine di un volto urlante e
sconvolto da una esplosione di luce solare, affermava l’esaltazione lirica e la
plastica manifestazione dello spettacolo dato dalla vita moderna sotto forma di
una visione multipla, dinamica, che perpetrava nel segno dell’artista l’inizio
o il miraggio dell’avvento di una nuova era. Il grido e il viso di quell’essere
sconvolto, metà uomo e metà fiera, era l’espressione dell’ansia e soprattutto
del desiderio violento di riscatto sociale dei poveri e dei sofferenti raccontati
nel libro dalla Ravizza, il cui destino era segnato da una società ingiusta che
per Boccioni non attendeva altro se non l’esplosione della rivolta del
Futurismo. E così il libro Nota della lavandaia, pubblicato in occasione del Capodanno del
1912 in pochissime copie, ebbe l’onore e la fortuna di avere sulla copertina uno
tra i disegni meno noti del più innovativo artista italiano del Novecento.
Guido Andrea Pautasso
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